RACCONTO DI UN BAMBINO
Durante una chiacchierata fatta in estate con un caro amico, nelle passeggiate serali rilassanti, scherzose, che abitualmente si fanno durante quel periodo, ci siamo imbattuti in racconti del "periodo dell'età felice" come la definisce Piero Arcuri. Il periodo, cioè dell'infanzia e dell'adolescenza.
La serata piacevole e la buona compagnia ci ha portato a parlare del passato, e ognuno ha ricordato aneddoti, esperienze, episodi.
Il suo un racconto è stato molto personale, ricco di particolari, interessante.
E' una storia che tratteggia un periodo in cui anche i minori partecipavano all'economia domestica.
I bambini /ragazzi venivano mandati presso gli artigiani (falegnami, muratori, fabbri calzolai ecc...) ad apprendere un mestiere o a lavorare in campagna.
Si frequentava la scuola solo per soddisfare un'esigenza primaria: "saper leggere, scrivere e far di conto", e non sempre volentieri.
Alle coppie che si sposavano la frase di augurio ricorrente era: "Auguri e figli maschi". Il maschio era più gradito perché era considerato una "risorsa" della famiglia, pertanto doveva avviarsi, il più presto possibile, verso l'esperienza lavorativa o verso una professione.
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In cambio di una mancia i bambini aiutavano volentieri qualche artigiano o qualche ambulante che esponeva la merce in piazza (bozzetto di Piero Arcuri) |
Fino agli anni '50/60, nel periodo di "quando eravamo povera gente" e anche prima, l'economia familiare era sostenuta anche dal "lavoro dei minori", seppur vietato.
La storia, integralmente prodotta qui di seguito, riguarda l'esperienza di un bambino/ragazzo di allora nel periodo della mietitura.
Ritenendola molto interessante, ho sollecitato il mio amico a scriverla per poterla condividere con tutti voi.
L'idea non lo ha trovato subito d'accordo. Però, qualche giorno fa, ho ricevuto con una certa sorpresa la sua testimonianza e la sua minuziosa descrizione nella quale si coglie il senso del tempo e della storia, pertanto volentieri la pubblico, in modo anonimo, come richiesto.
Porgo quindi all'attenzione di quanti seguono questo blog la lettura di questo bellissimo racconto per riflettere e ricordate tutti insieme.
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Anni '50 - La mietitura |
"Anch'io, negli anni '50, andavo con la mia famiglia in campagna all'epoca della mietitura, e sebbene fossi un bambino, fra i 7 e gli 11 anni, c'era lavoro anche per me. ( Allora già a 6 anni si doveva collaborare all'andamento familiare)
Ricordo che a fine giugno si partiva all'alba, col mulo e qualche provvista, per trasferirci in campagna. non eravamo i soli a fare questa vita tanti altri partivano per la mietitura. Per le vie c'era una processione di asini, cavalli, muli, di donne, uomini e bambini.
Non facevamo la strada provinciale, ma si andava per le scorciatoie, ossia si attraversava la montagna: si scendeva dai "Santi Cruci" per la casa di Colonnese e si procedeva in senso quasi rettilineo fino a raggiungere la fontana di "Pedalati" e da lì si scendeva e si giungeva in prossimità di Senapite poi, passato il ponte, di nuovo ci si addentrava nel bosco. Si percorreva "l'ierto 'e Rienzu", quindi si procedeva lungo la strada comunale fino a raggiungere la fontana del "Ceramiliu" (una località detta così perché vi si fabbricavano mattoni e tegole, i "cieramili"). Da qui si lasciava la strada e ci si inoltrava per i "carruoli" (strade sterrate) e si giungeva, finalmente alle Vigne di Verzino.
Il viaggio durava circa 3 ore; appena arrivati, mio padre si dava subito da fare a preparare tutto per l'indomani. Venivano uomini da altri paesi a lavorare per lui, perché il lavoro era tanto e durava dall'alba al tramonto, in genere per tutto il mese di luglio.
Io non ero certo contento, innanzitutto perché al paese avevo lasciato i compagni di gioco. (Ho ancora una visione netta che mi strugge. Eravamo tornati a Savelli dopo un mese e più di assenza - non di vacanze al mare, come oggi! - Avevo 7 o 8 anni, dopo cena ero uscito da solo e con le mani in tasca camminavo su e giù lungo la via di fronte casa. Ero frastornato, stranito in quel luogo che quasi non sentivo più mio, e le lacrime che versai mi inumidiscono ancora gli occhi mentre lo racconto. Volevo fuggire, ricordo che mi si affacciò questo pensiero, ma non sapevo dove andare, non conoscevo altro mondo, il mio finiva lì.)
In campagna c'era lavoro per tutti, anche per i bambini, e lavorare agli ordini di mio padre non era semplice. Tutto doveva essere fatto alla perfezione, come diceva lui, e guai a sgarrare. Il mio lavoro consisteva nel prendere le 'gregne' (mazzi di grano) e metterle sulla stragula (un arnese rettangolare fatto di tavole poggiate su due assi, che veniva trainato dal mulo). Detto così sembra facile, ma immaginate un bambino di 7 anni, sotto il sole cocente nelle giornate afose, e agli ordini di un padre-padrone, che ti comandava non come un figlio che desse il suo piccolo contributo, ma come un qualsiasi lavoratore che doveva svolgere bene la sua mansione, pena sguardi torvi e minacce di botte. Quindi tutto il giorno si era impegnati; la sera, dopo cena, la gente si riuniva e mentre i grandi raccontavano i fatti della giornata, noi bambini giocavamo.
Voglio qui raccontare come si trebbiava quando non c'era ancora la trebbiatrice meccanica. Finito di mietere, si 'carravano' (portavano) le gregne su un grande spiazzo - l'aia - e mentre un mulo le calpestava per fare uscire i semi del grano dalla spiga, un uomo spostava la pula (la iusca) con il rastrello; finito questo lavoro, che durava qualche giorno, si doveva aspettare una giornata ventilata. Allora gli uomini, tutti con una pala in mano, sollevavano la pula, in modo che il vento la portasse via e per terra rimanessero solo i chicchi di grano, che finalmente potevano essere messi nel sacco. Ma il grano doveva essere portato nel magazzino, che era lontano circa 1 ora di cammino con il mulo; questo si faceva di sera, e molte volte io restavo a guardia del grano rimasto. Ricordo ancora che mi infilavo in un sacco e mi avvolgevo nella paglia. Nella notte nera guardavo il cielo stellato sopra di me e mi addormentavo al canto dei grilli. All'alba mi svegliava l'aria fredda, ma io mi arrotolavo ancora di più nella paglia, per rubare qualche ora alla giornata di lavoro che mi aspettava."
ANONIMO
(Un bambino-ragazzo di allora. Diversamente giovane adesso)
Se anche tu vuoi condividere su questo blog la tua testimonianza o un racconto puoi inviare a: storiedisavelli@gmail.com
Io a 15 anni andavo a lavorare a Paluri per costruire e ,, caselle,, la sera dormivo per terra e il giorno a portare ,,savurre,, e calce ai muratori. Correva l'anno 1962.
RispondiEliminaSi andava a piedi da Savelli a Paluri. Il sabato si tornava a casa per 500 lire al giorno.
Angelo Lio.
Forse per questo sei diventato quello che sei, ti stimo tantissimo. Invece io ho avuto la " mangiatura vascia" e ho fallito negli studi e costretto a fare l'operaio per tutta la vita. Con questo non biasimo i miei genitori anzi, loro hanno fatto tantissimi sacrifici per renderci la vita facile, sicuramente non responsabili del mio futuro. Quindi ben venga un padre padrone per la persona che sei diventato. Con questo credo che era meglio quando si stava peggio, perché ci serve a dare il giusto valore alla storia.
RispondiElimina"A mungitaura vascia"....ciao, Gì!
EliminaBellissima storia grazie Piero.
RispondiEliminaGino M.
Storie che fanno riflettere. Grazie Piero
RispondiEliminaMolto bello il racconto
RispondiEliminaSalvatore Astorino
Bellissimo questo racconto.
RispondiEliminaMichela
Tanto lavoro in più quello di una volta, ma anche tanti valori in più. Buona domenica.
RispondiEliminaBellissimo racconto, mi sono commossa!
RispondiEliminaI padri padroni che non elargiscono carezze,che non hanno mai un elogio,un incoraggiamento,ma riescono a mettere in moto il meccanismo del riscatto!Auguri PERSONA SPECIALE!
Tonia C.
Io invece a 8 anni nescia da scuola e jia a pascire a crapa...
RispondiEliminaCiao Piero, storie bellissime che hanno contribuito a formare il carattere forte e tenace della nostra generazione. Mi ricordo buona anima di mastro Pietro “Sciaccone “ alle prese, soprattutto l’estate, a insegnare a tanti ragazzi il mestiere del “forgiaro” e quello di “ferrare i ciucci “. Quella “ruga” era piena di gioventù che riempiva tutti i cuori. Grazie per queste belle storie piene ormai solo bei ricordi ma mai più ripetibili.
RispondiEliminaMena Tallarico